Anche oggi Il Sole 24 Ore ci elargisce la solita
sfilza di luoghi comuni, errori teorici e lessicali.
Per Alberto Orioli
per far progredire il paradigma
di sviluppo dell'Italia (…) lo Stato deve arretrare dall'economia: tagli nella
spesa pubblica, tagli nelle partecipazioni dirette e non delle società
municipali, tagli nelle spese per acquisti di beni e servizi, uso più razionale
degli spazi fisici destinati agli uffici, alienazione degli immobili.
Come si possa ottenere una crescita dell’economia mediante
un taglio della spesa pubblica è ovviamente dato per scontato sulla base del
più becero luogo comune: meno stato, più mercato. Peccato che gli acquisti di
beni e servizi delle pubbliche amministrazioni siano una domanda rivolta al
settore privato. Una loro riduzione significa una riduzione delle
vendite delle imprese! E per questa via non si ha alcuna crescita.
Sicuramente, dato che tutto si deve intendere per sottinteso,
l’editorialista avrà voluto riferirsi ai classici “sprechi”. Bene. Sarebbe allora
molto più convincente se dicesse che occorre tagliare gli extra-profitti del
settore privato che si aggrappa alla mammella del settore pubblico. Sono sicuro
che in casa confindustriale suonerebbe molto meno bene. Ma se vi sono sprechi e
sovraprezzi negli acquisti pubblici, significa che vi sono extra-profitti nel
settore privato. E non vi è ragione da parte del settore pubblico per favorire
un’impresa privata, se non quello di ottenere un vantaggio “esclusivo” da parte
di un funzionario pubblico o di un esponente politico colluso. Ma il quotidiano
confindustriale sostiene questo governo e lo sprona ad essere più coraggioso
nella politica economica. La Confindustria, di cui Il
Sole 24 Ore è l’organo di
informazione, fa parte di quel circolo ristretto che gode dell’ascolto dell’attuale
maggioranza politica ed è in contatto quotidianamente con l’apparato
burocratico al più elevato livello. Si crede veramente che spingano per
tagliarsi gli extra-profitti?
Poi scrive:
Oggi l'Italia produttiva vive –
unicum nel mondo – grazie a una sorta di "circolazione extracorporea"
affidata alla domanda esterna con la (impossibile) funzione di sostituzione
della domanda interna in continuo crollo verticale (la differenza mostrata
dall'Istat tra fatturato estero e fatturato interno del settore manifatturiero
italiano è ormai di quasi 30 punti, perchè il primo cresce del 12% e il secondo
crolla del 15). Ma non potrà durare a lungo questa fase da tenda a ossigeno,
anche perché chi vive di mercati esteri è il 20% delle imprese: il nodo della
produttività bloccata da due decenni non trova soluzione se la pressione
fiscale continua a superare il 45% (…). L'azione sul cuneo fiscale è ormai
indifferibile per uscire dalla morsa di un doppio record negativo del costo
lavoro tra i più alti dell'Ocse e della retribuzione netta tra le più basse dei
Paesi occidentali.
Partiamo dalla fine: il “costo del lavoro tra i più alti
dell’Ocse”. Un’altra affermazione non dimostrata. Guardando il seguente
grafico, direi che il costo del lavoro per dipendente dell'Italia è leggermente
sotto la media; è sicuramente più basso di quello francese, austriaco, olandese,
belga e americano.
Ancora una volta, l’editorialista potrebbe riferirsi al
costo del lavoro per unità di prodotto (clup). Ma il clup viene influenzato
dalla domanda e dalla produzione. Se la produzione cala, se cala il pil, quand’anche
il costo per dipendente restasse invariato, il clup aumenta! E in Italia la
produzione industriale è scesa di oltre il 25% dal 2007 e il pil del 9% dal
primo trimestre del 2008. Ma il pil è rimasto sostanzialmente invariato in
Francia, è cresciuto di oltre il 2,5% in Germania e del 6% negli USA. E qual è
stata la crescita del costo del lavoro? Ecco il grafico che riporta il livello
al secondo trimestre di quest’anno rispetto al 2010.
E’ pertanto evidente che il problema della competitività
italiana non è un problema di costo del lavoro. Ma un problema di carenza di
domanda. Se non c’è domanda, non ci sono vendite. Se non ci sono vendite, non
si produce. Se non si produce, la produttività crolla e l’azienda chiude.
Allora, anche l’altro
discorso, relativo al cuneo fiscale, è solo un palliativo. Non sarà in quel
modo che si ridarà competitività alle imprese. Si potrà forse migliorare la redditività
(che non è propriamente la stessa cosa della competitività), grazie alla riduzione della quota salari, ma non vi sarà nessun incremento
di produttività se la domanda e la produzione non torneranno a crescere.
E sulla crescita della domanda non vi è sostanzialmente
nulla nella politica economica di questo governo che possa dare l’impulso
necessario per uscire dalla crisi.
Nel momento in cui la domanda privata langue, le politiche
di austerità fiscale comprimono l’unica voce della domanda sotto il controllo
delle autorità politiche ed economiche che potrebbe rilanciare l’attività
economica. Ci affidiamo in tal modo all’ossigeno della domanda estera, di cui
ne beneficiano però – come dice Orioli – poco più del 20% delle imprese.
Un atteggiamento che dimostra la rinuncia di questa classe
dirigente a governare il paese e a tracciare un sentiero di sviluppo e
crescita.